ANCONA Le sterzate economiche in tempo di guerra imboccano la strada obbligata della diplomazia. Ariston Group, leader del comfort termico hi-tech e sostenibile, quotata in Borsa e presieduta da Paolo Merloni, attende quasi 24 ore prima di affidarsi a una nota ufficiale, per reagire all’esproprio firmato da Vladimir Putin. Il leader del Cremlino nazionalizza lo stabilimento russo della multinazionale fabrianese di Vsevoložsk, vicino a San Pietroburgo, e i suoi uffici commerciali: li trasferisce per decreto, e temporaneamente, sotto l’ombrello di Gazprom, controllata dal governo russo. Non lascia tempo al tempo il ministro degli Esteri, Antonio Tajani: parla con i vertici dell’azienda e convoca, per domani, l’ambasciatore di Mosca in Italia, Alexey Paramonov. Si affida alla velocità dei social e al proclama: «Siamo al fianco delle imprese, pronti a tutelarle tutti i mercati internazionali».
I rapporti
Lapidarie.
La storia
Un legame, quello spezzato dalla scelta del presidente del Cremlino, che viene da lontano. Il primo investimento russo del brand storico dell’industria italiana risale al 1995. La storia continua. Il 2005 è stato l’anno dell’inaugurazione dello stabilimento di Vsevolozhsk, a 20 chilometri da San Pietroburgo, dove Ariston Group produce decine di migliaia di scaldacqua all’anno destinati al mercato interno. Sono prodotti avanzati ad alta efficienza, ed è un centro di eccellenza per il loro sviluppo. I numeri danno forma e sostanza a un sito da 64mila metri quadrati, di cui 30mila coperti, con 200 dipendenti tra diretti e indiretti, più altri 100 che sono la linfa della rete commerciale. Due anni fa, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, Paolo Merloni aveva annunciato, insieme allo stop alle attività della commerciale a Kiev, «la riduzione, in quantità ed estensione, delle operazioni della controllata russa». Una decisione che non ha avuto alcun impatto negativo sull’operatività dello stabilimento, dove erano stati sospesi tutti gli investimenti, a eccezione di quelli legati alla sicurezza sul lavoro. La scelta non ha impedito, nel 2023, di generare circa 100 milioni di fatturato. La tesi di Casoli si rafforza: «È un brutto segnale a livello di relazioni internazionali, poco significativo sul fronte economico».